di Monica Martinelli

Introduzione

Vi è una pagina nota di Scalabrini, molto bella anche dal punto di visto letterario: è tratta dal testo “L’emigrazione italiana in America. Osservazioni”, importante scritto di Scalabrini sull’emigrazione, pubblicato nel 1887. In questo testo, vi è un passaggio denominato “Reminescenze”, scritto a partire dal ricordo della scena di una partenza di emigranti alla stazione di Milano.

L’attualità di queste parole ha molte sfaccettature. In questi ultimi anni, quella scena si è presentata e si può presentare con molte inaspettate somiglianze (penso, per es., ai transitanti dalla rotta balcanica verso altri paesi). Per approfondire questa ‘attualità’ si dovrebbe aprire una finestra sui dati e sulla composizione di tali transiti degli attuali movimenti migratori a Milano.

Ma l’attualità su cui vorrei soffermarmi qui riguarda un altro aspetto: ciò che ha contribuito, a mio avviso, nel concorrere a rendere profetica la visione di Scalabrini sulle migrazioni è anche la postura da lui assunta nel guardare a questa realtà – come indica bene questa pagina. Una postura che ci interpella anche oggi. E ci può ispirare nel posizionarci verso la realtà, fino a cogliere in essa i segni dei tempi.

Provo ad articolare questa postura di Scalabrini in quattro movimenti: vedere, ascoltare, affezionarsi, generare che vorrei delineare nel loro essere in azione in Scalabrini e in germe, per prospettive da sviluppare dopo di lui, lasciateci in eredità.

 

1. Vedere

Il testo inizia con queste parole: “In Milano parecchi anni or sono, fui spettatore di una scena che mi lasciò nell’animo un’impressione di tristezza profonda.

Di passaggio alla stazione vidi la vasta sala, i portici laterali, e la piazza adiacente invasa da tre o quattro centinaia di individui poveramente vestiti. Sulle loro facce abbronzate dal sole, solcate dalle rughe precoci che suole imprimervi la privazione, traspariva il tumulto degli affetti che agitavano in quel momento il loro cuore. Erano vecchi curvati dall’età e dalla fatica, uomini nel fiore della virilità, donne che si traevano dietro o portavano al collo i loro bambini, fanciulli e giovinette tutti affratellati da un solo pensiero, tutti indirizzati ad una meta comune”.

Scalabrini vede questi uomini, donne, bambini. Vede sui loro corpi i segni di una condizione di vita. Vede, attraverso i volti (ne descrive le rughe precoci perché abbronzati dal sole nei campi) non solo i segni di un lavoro duro, ma anche ciò che attraversa la loro interiorità, “il tumulto degli affetti che agitavano in quel momento il loro cuore”.

Li vede in partenza: dice, infatti, erano “emigranti”, e poi li vede in arrivo – “io li vedo quei meschini sbarcati su terra straniera” -, immersi nel caos delle tante nuove informazioni, facili vittime di nuove forme di sfruttamento.

Scalabrini ‘vede’ perché non divide: non separa ciò che, dalla modernità in poi, abbiamo invece imparato a separare dentro il processo di astrazione sempre più potente (etimologicamente, astrarre significa ‘separare’, ‘rompere/scomporre’ ciò che sta insieme): processo che, se, da un lato, a livello scientifico ci ha consentito di capire, spiegare e controllare la realtà, dall’altro lato, a livello vitale, ha concorso ad indebolire la nostra comprensione dell’umano, quel ‘concreto vivente’ che tiene in relazione dolore e speranza, memoria e futuro, corpo e spirito, nostalgia e desiderio, emigrante e immigrato…..

Lo sguardo di Scalabrini è ‘concreto’. La concretezza è proprio ciò che contrasta l’astrazione (come fa trapelare il significato etimologico che, in senso traslato, significa: tenere insieme, mettere insieme, in relazione quelle opposizioni polari, non contraddittorie, che compongono l’umano).

Si tratta, in Scalabrini, di un modo di vedere che ricompone e va incontro all’incontro. Un insegnamento prezioso in una società che soffre di un livello di astrazione, cioè distacco dalla realtà, molto elevato. Una società entropica, di forte disgregazione a tanti livelli e di contemporanea perdita di varietà. Il nostro è un tempo il cui stato di disordine rende difficile riuscire a vedere.

Perché si è come bloccati. Dentro le crisi continue che si succedono una dopo l’altra in questi primi 20 anni del secolo. Dentro le logiche di efficientizzazione assunte a principio regolatore del sistema sociale.

In questa cornice tende a prevalere un vedere passivo che si adatta alle situazioni, selezionando pezzi di realtà, così che il potenziale impatto di quello che inizialmente può scuotere (una scena come quella che vede Scalabrini o un naufragio nel Mediterraneo) si esaurisce a causa sia dei nostri meccanismi di difesa sia delle logiche di rappresentazione mediatica che, da un lato, rendono ‘normale’ l’accadere di un genere di cose in quel tipo di posto, e dall’altro, con i loro regimi di invisibilità, conducono a definire inesistente ciò che non viene più posto sotto i riflettori decretandone la non-rilevanza sociale.

Scalabrini – al rimanere bloccato – preferisce il mettersi in cammino. Solo camminando si riesce a vedere: un cammino, il suo, che apre strade alternative rispetto al modo di considerare le migrazioni nel suo tempo – strade capaci di far fiorire dei processi. Un cammino che non è solo fisico (sappiamo dei tanti viaggi di Scalabrini per visitare gli emigranti) ma interiore, esistenziale. Lui stesso, infatti, intraprende un percorso: dapprima vede le migrazioni come un male; poi un male da accettare; una necessità; infine, un segno dei tempi.

In questo cammino, Scalabrini indica un diverso adattamento alle situazioni: non l’irresponsabilità, non la delega perché altri si occupino del problema, non l’indifferenza, ma la cura: nella sua radice sanscrita, ‘cura’ contiene il significato di: osservare attentamente. La cura è anzitutto uno ‘sguardo’ attento verso la realtà.

Romano Guardini come Simone Weil dicevano che questa postura – l’attenzione profonda al reale – è preghiera. Scalabrini esprime questa attenzione con il suo desiderio raccolto nelle seguenti parole: “mettersi davanti al mondo chiedendogli il permesso di potergli fare del bene”.

Il vedere di Scalabrini dice la possibilità di una modalità diversa di prendere atto della situazione reale che, pure, non è spesso in nostro potere cambiare: un vedere che diviene occasione di risveglio dell’umano che, all’ossessione della messa in sicurezza (sine cura, senza cura), opta per l’esporsi e dare un contributo alla forma che può assumere la carovana della convivenza collettiva, plurale.

2. Ascoltare

Scalabrini si mette in ascolto di ciò che vede. E questo ascolto lo trasforma.

L’ascoltare di Scalabrini ha un tratto peculiare che si evince da vari suoi scritti: è una esperienza itinerante che implica un delocalizzarsi e approssimarsi.

L’ascolto è un uscire da sè simile, esponendosi al fatto che la realtà potrebbe smentire quanto precedentemente supposto (accennavo al fatto che lo stesso Scalabrini cambia idea sulle migrazioni, fino ad inviare compagni di viaggio per i migranti, in ascolto di quanto gli mandano a dire gli emigrati in America: “Ci mandi un prete perché qui si vive e si muore come bestie”).

L’uscita è al contempo un approssimarsi verso l’altro e, ancor più ampiamente, verso il suo mondo, quel ‘reale’ dal quale è inevitabile partire per comprendere i vissuti individuali, considerando come imprescindibile il legame tra dimensione individuale e dimensione sociale.

“Partivano, quei poveretti, alcuni chiamati da parenti che li avevano preceduti nell’esodo volontario…” [inseriti in catene migratorie]

“Non senza lacrime avevano essi detto addio al paesello natale, a cui li legavano tante dolci memorie…” [legati ai loro paesi di partenza da memorie]

L’ ascolto di Scalabrini di questa realtà lascia le cose al loro posto, si avvicina alla realtà dell’altro nella consapevolezza che il soggetto è inserito in un contesto, poiché è costitutivamente relazionale.

Nel dire “erano emigranti” si mette in ascolto di ciò che c’è dietro quella decisione sofferta. E in ascolto delle distorsioni di un sistema che, anziché proteggere dai rischi sociali, opprime e abbandona i suoi membri come se questi fossero individui a-relazionali (senza contesto, legami, storia…).

Il termine “ascolto” comprende nei suoi significati anche l’imparare.

L’ascolto diviene infatti in Scalabrini una fonte di apprendimento. Esso sfocia nel dare la parola all’altro – dal quale apprendere – e nel concorrere a creare le condizioni perché possa prendere la parola.

Dà voce infatti ai in un’epoca – dopo l’Unità d’Italia – in cui emigrare era, da un lato, considerato – nel suo mutar di stato – un atto di lesa maestà (come scriveva il Verga nello stesso periodo), mentre dall’altro lato, era una valvola di sfogo per contenere i problemi sociali di una unità complicata.

Scalabrini girerà l’Italia per dar voce a questa realtà ‘esistente’ ma inascoltata.

La postura di Scalabrini ci interpella. L’ascolto dell’altro, della parola dell’altro cui dare la parola, non è poi così naturale come siamo forse indotti a credere. E la questione non si risolve meramente acquisendo specifiche competenze metodologiche che, certo possono aiutare.

Ma richiede empatia e fiducia.

Significativamente, Scalabrini non nasconde la sua commozione, che torna più volte nel lungo scritto sul “L’emigrazione italiana in America” ed è condensata nell’espressione: “partii commosso”.

Si lascia muovere dentro da ciò che ascolta, che vede, correndo il rischio di trovarsi da un’altra parte rispetto alla sua ‘agenda’, scalfito in qualche certezza, coinvolto in qualcosa che è più grande di sé, qualcosa a cui non può non rispondere, riconoscendo che quei volti meritano la concessione di un credito fiduciario, e che da esse possiamo apprendere.

La sua commozione è affezione per la realtà.

 

3. Affezionarsi alla realtà

L’affezione di Scalabrini ha diverse sfumature.

i) Scrive Scalabrini:

Un’onda di pensieri mesti mi faceva nodo al cuore. Chissà qual cumulo di sciagure e di privazioni, pensai, fa loro parer dolce un passo tanto doloroso! (…) Quanti disinganni, quanti nuovi dolori prepara loro l’incerto avvenire? Quanti nella lotta per l’esistenza usciranno vittoriosi? Quanti soccomberanno fra i tumulti cittadini o nel silenzio del piano inabitato? ….

Scalabrini – direbbe il poeta Rilke – ci dice come la realtà sia una domanda aperta: una domanda che si esprime in lingua straniera. Lasciar agire dentro di sé questa domanda, lasciando che i pensieri annodino il cuore, lo porta a star dentro – con tutto l’umano: pensiero, cuore, ragione e affezione – la realtà che vede e ascolta.

Si sente interpellato integralmente. E sente che senza la sua risposta quella interpellazione proveniente dall’umano (e per Scalabrini, chi tocca l’uomo tocca Dio) potrebbe correre il rischio di rimanere nell’oblio, di non venire alla luce. La risposta consente dunque a quell’interpellazione di emergere, rendersi manifesta, e di essere colta anche da altri. Diviene responsabilità che fa leva su un soggetto che non è tale prima del suo stesso rispondere-a ma diviene tale perché risponde-a e viene segnato-da ciò a cui risponde (Oggi celebriamo Scalabrini santo dei migranti: santo = “segnato-da” ciò a cui risponde).

Questa affezione ci interpella in questo tempo in cui è forte il difetto di affezione: per essere abbastanza veloci, efficienti e flessibili non riusciamo più a volere bene/affezionarci, a esporci, lasciarci interpellare dalla realtà.

ii) L’affezione di Scalabrini lo porta a leggere le migrazioni – ben prima di quanto oggi gli studi sulle migrazioni siano soliti fare – come una lente di ingrandimento: quando accenna alla ricerca di una ‘terra meno ingrata’, alle “forme odiose della leva e l’esattore” come le uniche forme attraverso le quali la patria si fa presente; e quando accenna al fatto che i migranti divengono “vittime di speculazioni disumane” nelle terre di arrivo così come di partenza, o di “prepotenze impunite” –, egli lascia intuire come i migranti riflettano nei loro corpi questioni più ampie. Lo storico tedesco delle migrazioni K. Bade direbbe che “non esiste una ‘crisi dei rifugiati’ a livello mondiale, ma una ‘crisi del mondo’ che genera movimenti di fuga”.

Non elenco qui le sue numerose, appassionate azioni a favore dei migranti. Desidero solo sottolineare che sono azioni con i migranti e con gli autoctoni dei paesi sia di emigrazione che di immigrazione. Facendosi lui stesso ponte tra i vari mondi.

iii) Nella sua affezione, Scalabrini coglie la complessità e l’eterogeneità della condizione umana, la varietà di possibili situazioni che abitano il migrare umano. Coglie che, in esse, c’è il bisogno ma c’è anche dell’altro.

Il viaggio del migrante è un investimento. Non solo economico, fisico, mentale, sociale. Ma lo è anche in quanto investito di fede: la preoccupazione che trapela nelle parole di Scalabrini quando si chiede: quanti, pur trovando il pane del corpo, verranno a mancare di quello dell’anima?”, rivela la consapevolezza di questo investimento di fede. Si tratta, infatti, di un viaggio che non è intrapreso senza credere che sia possibile vivere diversamente: un viaggio che, secondo il senso che la fede racchiude, si espone a un passo non assicurato.

Un investimento di fede come dimostra anche la benedizione ricercata alla partenza (ieri come oggi) da parte di un famigliare, un amico. Scalabrini stesso si trova a benedire la partenza e si commuove davanti a un suo fedele di un paese di montagna il quale gliela chiede dicendogli: “O emigrare o rubare”. La fede accompagna il viaggio del migrante, viaggio durante il quale il migrante cerca quel ‘tu’ a cui rivolgersi – una presenza invocata come compagno di viaggio (il suo Dio) che, in una situazione disperante, aiuta a dichiarare come non definitiva quella situazione: Scalabrini esprime per esempio con le parole di un giovane viaggiatore che gli porta i saluti degli emigranti: ”Dica al nostro vescovo che ricordiamo sempre i suoi consigli, che preghi per noi”.

A Scalabrini sta a cuore la fede del migrante come sacerdote, come vescovo, come uomo, perché la fede è un tutt’uno con l’umano. Coincide con l’esigenza di qualcosa che è oltre, del trascendente: tocca infatti la ‘salvezza’.

Il termine ‘salvo’ deriva da ‘olos’ che significa ‘intero’. La vita umana che si desidera salvare è, sì, la vita biologica, ma anche la vita nella sua interezza: non si tratta solo di sopravvivenza, ma di vita nella sua pienezza che, come persone in relazione, possiamo sperimentare; vita che sia umanamente vivibile. Questo anelito è nel bagaglio del migrante di ogni tempo.

Il migrante, per Scalabrini non è solo ‘oggetto’ di protesi – indispensabili, certo, soprattutto in alcuni momenti particolari (e, peraltro, oggi nemmeno così scontate). Ma la ‘stampella’ – utile, necessaria -, se considerata il tramite unico di una relazione, rischia di mancare quel movimento che è alla base del vivere insieme, lo strumento connettivo più forte delle società: il dare-ricevere.

Il bisogno dice vita, ma non ancora ‘vita umana’.

Scalabrini non manca di annotare questo aspetto: “quando rilevo che migliaia e migliaia di fratelli (…) vivono senza il conforto di una parola amica…”:parola amica”, a sottolineare che l’uomo cerca l’incontro, relazioni significative. E aggiunge che l’assenza di una parola amica (così come l’assenza del rispetto della dignità dell’uomo, l’assenza di attenzione) non lo lascia indifferente: “allora la vampa del rossore mi sale in volto, mi sento umiliato nella mia qualità di sacerdote e di italiano”.

Nella sua affezione per l’uomo intero (nei suoi bisogni materiali – “la patria del diseredato è quella che gli dà il pane” – e nel suo desiderio di pienezza – “quanti verranno a mancare del pane dell’anima?”) Scalabrini ci aiuta a cogliere che la dimensione spirituale è necessaria per la vita sociale, è una questione antropologica: è la cura della profondità della vita, la presa in carico dell’umano nella sua interezza. Essa va custodita poiché essa genera la fiducia nel fatto che non esistono sistemi che annullano completamente l’apertura al bene, alla verità, alla bellezza, la capacità di reagire. E di generare, ossia contribuire a mettere al mondo il mondo.

 

4. Generare – contribuire

 

Di fronte ad uno stato di cose così lacrimevole, io mi sono fatto sovente la domanda: come poter rimediarvi? (…) e mi chiedo di nuovo: come intervenire?”

Non si tratta solo di fare qualcosa, piuttosto del “come” lo si fa.

Non si tratta di cercare soluzioni tecniche al problema, ma di attraversare il problema come occasione di rinascita: ne va della nostra comune umanità. Da questo punto di partenza, è possibile riattivare dimensioni dell’umano che non scrutiamo più nel campo del possibile (a vari livelli).

Scalabrini comprende infatti che, di fronte a un fenomeno come quello del migrare umano, è impossibile chiudere il cerchio su se stessi (se stessi come individui e come società/gruppi sociali, nazioni), avviluppati dentro “soprusi e malintesi politici” cui egli stessa fa un cenno nel suo scritto.

Si potrebbe dire, con De Certeau, che a Scalabrini diventa evidente – lungo il suo percorso fino alla sua lettura profetica delle migrazioni – che l’altro, il migrante, lo straniero “è, a un tempo, l’irriducibile e colui senza il quale vivere non è più vivere”, umanamente vivere.

Rigenerare continuamente questa umanità segna l’agire resiliente di Scalabrini.

La resilienza viene da resalio, il verbo latino che indica il movimento della nave quando, dopo essere stata capovolta dalla tempesta, riesce a rigirarsi e a riprendere il mare, con più esperienza. Il resiliente non è solo il sopravvissuto. È chi ha guardato in faccia la morte, e da questo vis à vis ha acquistato una consapevolezza nuova sul senso della vita. Non è neppure chi resiste, chi non si spezza: è chi riesce a cambiare forma. Chi, dopo aver visto la morte da vicino, prende una forma capace di ospitare più vita.

Sappiamo quanto l’esperienza della Pasqua – morte/vita – animi l’agire di Scalabrini a tutti i livelli. Egli lascia agire dentro di sé questa dinamica di morte-vita, lasciandosi spiazzare come la nave dal vento e dalle onde per tornare a navigare con maggiore consapevolezza che quanto accade all’altro mi/ci riguarda.

Qui vorrei riprendere due passaggi.

E’ interessante la duplice espressione di Scalabrini in poche righe: loro, gli emigranti, “partivano tratti da…” – io, lo Scalabrini, “partii commosso”: una espressione che esprime la consapevolezza di un destino comune. C’è un viaggio che riguarda tutti.

Il viaggio del migrante ricorda un viaggio che riguarda tutti: il viaggio del divenire umani, il quale non ha nulla di definito o di ‘naturale’. Chiama in causa responsabilità e libertà: l’essere umano, infatti, è colui che viene alla vita senza deciderlo, ma non diventa uomo senza deciderlo, dentro, appunto, un percorso che porta all’umanità, travagliato da ostacoli, rischi, dubbi, andate e ritorni, cadute e risurrezioni, attraversamento di confini come accade per il viaggio del migrante: un viaggio che trasforma, e che non sempre avviene in condizioni di scelta sovrana, eppure la libertà ne è il motore.

In questo testo di Scalabrini scritto vedendo la scena alla stazione di Milano, si possono cogliere diversi aspetti che alimentano la sua lettura profetica delle migrazioni la quale delinea le migrazioni come preparazione della Pentecoste dei popoli. Scalabrini risente di questa sua ‘partenza’, commosso: mosso da ciò che vede attentamente, ascolta in profondità, ciò a cui si affeziona e dentro cui si mette in gioco generando a vari livelli uno sguardo nuovo, un agire possibile, un agire il cui “come” genera più vita per altri, perché il migrante non solo parla “a” noi ma parla “di” noi.

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